Fu proprio tale tensione
al cambiamento che mi indusse a guardare con interesse alla
scuola dell’obbligo, territorio privilegiato di formazione e
di crescita.
Milano
Partii
giovanissima per Milano, con una laurea in tasca. A quei tempi
una laurea era ancora qualcosa, tanto che non tardai a inserirmi
nel mondo del lavoro. Scarsissimo precariato, ruolo immediato.
La normalità, a quei tempi. Un privilegio, oggi, una fortuna
per pochi.
Che cosa ha significato per me venire a Milano? Posso sintetizzarlo
in una celebre battuta di Troisi nel film “Ricomincio da tre”.
Al protagonista del film, diretto al Nord, si chiedeva: “Emigrante?”
e lui: “No, turista!”. Per sfatare il luogo comune, anch’io
precisavo, non senza un certo orgoglio, che no, non ero un’emigrante,
ma una giovane insegnante, desiderosa di fare esperienze e di
mettermi in gioco. Credevo nella forza dirompente della scuola,
nella sua capacità di emancipare, nobilitare e offrire a tutti
reali opportunità. Credevo nella sua forza inclusiva e di valorizzazione
delle diversità.
Il lavoro ha rappresentato per me una bellissima scoperta. Milano
era una fucina di esperienze. Le scuole milanesi pioniere nel
campo dell’innovazione, della didattica laboratoriale, della
ricerca. Ciò che più mi convinceva era il rigore metodologico
e scientifico con il quale tali esperienze venivano condotte.
Non mancavano gli slogan che inneggiavano a un approssimativo
spontaneismo mascherato di creatività. Sirene che, di sicuro,
affascinavano, ma che non tardarono a rivelarsi per quello che
realmente erano: parole vuote e proposte prive di fondamento.
Fondamenti
teorici
Mi accostai a quelle scuole di pensiero che mi sembravano più
feconde di suggerimenti e mi convinsi che non avevo appeso al
chiodo la mia laurea in filosofia, come avevo erroneamente creduto.
Le mie conoscenze mi davano sicurezza e a un tempo mi offrivano
significative chiavi di lettura di quanto andavo via via scoprendo,
fondendosi con le nuove suggestioni psicopedagogiche. Il cognitivismo,
Vygotsky, Bruner, Ausbel, Popper, Antiseri, Boscolo, Pontecorvo,
Novak furono alcuni tra i preziosi maestri che mi aiutarono
ad alimentare quella impalcatura teorica che doveva sostenere
il mio viaggio di docente. Non mancarono le delusioni, inevitabili
nella faglia che si interpone tra teoria e pratica, che imparai
tuttavia a mettere in conto. Non mi muovevo in una scuola ideale
e, di sicuro, non tutte le ciambelle uscivano col buco. A volte
mi rendevo conto che alcune esperienze, come per esempio, l’apprendimento
cooperativo, la metacognizione, la negoziazione di significati
o l’applicazione del metodo sperimentale, erano improponibili
in determinati contesti. Ho imparato a incassare e, fedele a
un’impostazione popperiana, ho imparato a vedere il problema
non come un insuccesso, ma come uno scoppio di meraviglia, un
punto di partenza che mi avrebbe aiutato a crescere.
Tecnologie
e didattica
Un grande aiuto, nel mio percorso, mi è stato offerto dalla
scoperta, in tempi non sospetti, dell’efficacia delle tecnologie.
L’utilità delle tecnologie applicate alla didattica. Non si
era ancora subissati, con la stessa intensità di adesso, da
continue sollecitazioni informatiche, ma si iniziava a capire
quanto aiuto potessero dare nei processi di apprendimento. Erano
i primi anni Novanta e chiesi una linea internet per la mia
scuola - allora ero responsabile di hardware e software dell’istituto
– ma gli amministratori comunali mi guardarono con sospetto.
“Perché le tecnologie a scuola? Perché un laboratorio d’informatica
come quello da lei prospettato?” mi chiesero stupiti e un po’
contrariati. “Per tanti motivi,” risposi ” il primo: i linguaggi
multimediali sono linguaggi familiari ai nostri alunni, non
possiamo non tenerne conto; secondo: le tecnologie, almeno nella
scuola dell'obbligo, non devono essere un fine ma un mezzo,
che può rivelarsi efficacissimo nello studio, in quanto motiva
ed offre importanti dispositivi di ricerca per affrontare contenuti
anche complessi; terzo: la modalità di approccio, che le tecnologie
attivano, improntata talvolta a una ricerca che si basa sui
tentativi ed errori, apre la mente e aiuta a costruire percorsi
autonomi di conoscenza.” Sono passati circa vent’anni da allora.
Ho assistito a una pervasività eccessiva delle tecnologie. La
scuola ha spesso scimmiottato il mondo esterno ricorrendo a
un uso talvolta esagerato del mezzo informatico e del web e
trascurando altri strumenti come la fonte orale, la narrazione,
i messaggi non verbali, la motricità fine dell’uso della penna
e del corsivo, la centralità stessa delle materie tradizionali.
Si è assistito a una svolta professionalizzante e tecnicistica
della scuola, con gravissimo nocumento dell’apprendimento di
alcune discipline. Prima tra tutte l’italiano. Il nuovo millennio
è stato salutato con lo sventolamento della bandiera delle tre
“i”. Ma tra queste “i” non c’era quella di italiano.
Crisi
della scuola e bilanci personali
Se devo dirla tutta, ho sofferto e soffro dello scempio che
viene perpetrato, oggi, a danno della nostra lingua. Uno degli
aspetti che ho sempre amato del mio lavoro e l’opportunità che
esso mi offriva e mi offre di giocare con lingua, di fruire
dell’infinita magia delle parole. Di creare parole. Do molto
spazio a questo aspetto e dedico al testo scritto una buona
fetta del mio impegno didattico. Ciò mi consente di alimentare
il mio amore per la scrittura, che è diventato esso stesso nutrimento
per il mio lavoro e che cerco in vario modo di trasferire ai
miei allievi. Talvolta con risultati apprezzabili, talaltra
con brucianti insuccessi.
La mia vita professionale è stata costellata da momenti di grande
soddisfazione e da difficili fasi di riflessione e di amaro
rincrescimento. Continuo ad amare il mio mestiere e scopro ogni
giorno virgole di luce e scampoli di potenza creativa che danno
slancio vitale al mio agire. Devo riconoscere, però, che è un
difficile momento quello che stiamo vivendo, e la scuola, purtroppo,
risente non poco di questa contingenza negativa. Il guaio è
che in tutti questi anni, in nome di una innovazione che fosse
al passo coi tempi, sono state privilegiate le esigenze di facciata
delle singole scuole e la loro possibilità di spendersi sul
mercato, rispetto a finalità imprescindibili come quella, per
esempio, di mettere gli studenti nella condizioni di parlare
e scrivere un italiano corretto.
Purtroppo, nella scuola, ha via via preso piede una logica aziendalistica
che si è fatta beffa delle lettere, della grammatica, della
sintassi, della storia e della filosofia, ritenute inutili passatempi
per sibariti dediti all’ozio e alla mollezza dei costumi. La
priorità degli apprendimenti ha ceduto il posto alla centralità
degli adempimenti formali, come se fossero più importanti i
tempi, i luoghi e le circostanze in cui si apprende (per poter
poi provare che tutto sia avvenuto in ottemperanza alla normativa
vigente) rispetto a ciò che si apprende. Nel corso degli anni
ho preso le distanze da tutte queste posizioni, che nell’attuale
fase del mio percorso, critico fortemente, nella ferma convinzione
che prima di tutto venga la conoscenza e che tutte le discipline
siano utili. Anche quelle umanistiche. Anzi, sono queste stesse
che aprono gli occhi, rendono critico il pensiero, liberano
dalle catene dell’ignoranza e permettono di vedere la realtà
e non solo le sue ombre. Credo tristemente che la retorica dell’inutilità
di tali discipline sia utile a una logica di sopraffazione.
È più vantaggioso creare dei tecnici disciplinati e acquiescenti,
fedeli esecutori, sudditi insomma, piuttosto che cittadini attenti
e critici. In poche parole, la lingua, parlata e scritta, e
le lettere in generale, fanno bene al pensiero, ne aiutano i
meccanismi, li rendono più fluidi. Ma, soprattutto, creano cittadini
onesti e consapevoli. Oggi, più che mai, ce n’è bisogno. E,
finché ne sarò convinta, mi sentirò orgogliosa del mio ruolo
di insegnante.
È
possibile contattare Annalisa Martino attraverso l'indirizzo
internet
della redazione scientifica di Ididlab: infogestione@infogestione.com
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